31 maggio, 2010

PROMEMORIA 31 maggio 1972 Strage di Peteano


A Peteano una pattuglia di carabinieri, accorsa in seguito ad una telefonata, incappa in una bomba: tre le vittime. L'attentato è impropriamente noto come strage di Peteano.

La Strage di Peteano è un atto terroristico avvenuto il 31 maggio 1972, nei pressi di Peteano, frazione di Sagrado in provincia di Gorizia, presumibilmente compiuto da militanti dell'associazione terroristica di estrema destra "Ordine Nuovo", contemporaneamente tutti iscritti o dirigenti dell'MSI.
La strage di Peteano, definita anche trappola di Peteano per le modalità con cui si svolse, provocò la morte di tre uomini dell'Arma dei Carabinieri, il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Tagliari e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.
Questo fatto di sangue si collocava in un preciso e delicato contesto storico-politico: il 7 maggio 1972 infatti si erano svolte le elezioni politiche anticipate che avevano assegnato la guida del paese ad un nuovo esecutivo presieduto da Giulio Andreotti; l'omicidio Calabresi era del 17 maggio.
Il dibattito politico era ancora turbolento, ed era accompagnato da temuti tentativi di colpo di stato.
Diversi, prima di quella di Peteano, furono gli attentati terroristici che molto avevano fatto discutere e che avevano contribuito a creare un clima di netta tensione e apprensione nel paese, un primo passo verso quella che è stata in seguito definita strategia della tensione.
L'attentato [modifica]

La notte del 31 maggio una telefonata anonima giunse al centralino del pronto intervento della Stazione dei Carabinieri di Gorizia. A riceverla fu il centralinista di turno Domenico La Malfa. Il testo della comunicazione in lingua dialettale è il seguente:
« Senta, vorrei dirle che xè una machina che la gà due busi sul parabreza. La xè una cinquecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna ».
Sul posto segnalato giunsero tre gazzelle. Venne rinvenuta la Fiat Cinquecento bianca con i due buchi sul parabrezza, come aveva comunicato in dialetto l'anonimo informatore.
Tre carabinieri tentarono di aprire il cofano del mezzo; l'auto saltò in aria provocandone la morte, mentre altri due rimasero gravemente feriti.
Le indagini [modifica]

A dirigere le indagini sulla vicenda venne posto il colonnello Dino Mingarelli, vecchio braccio destro del generale Giovanni De Lorenzo.
Mingarelli diresse subito la sua inchiesta verso gli ambienti di Lotta continua di Trento, ma le indagini non ottennero gli esiti previsti: dalla magistratura milanese giunse l'informazione secondo cui l'attentato sarebbe stato attuato da un gruppo terrorista triestino di estrema destra, di cui fece parte anche Ivano Boccaccio, militante ucciso in un tentato dirottamento di un aereo all'aeroporto di Ronchi dei Legionari nell'ottobre successivo.
L'informazione era stata data da Giovanni Ventura, nel frattempo arrestato per la strage di Piazza Fontana. Tuttavia il colonnello scartò l'indicazione milanese. Un ordine del SID infatti lo invitò a sospendere le indagini sul gruppo terrorista di estrema destra.
Il colonnello rivolse le attenzioni investigative verso sei giovani. Costruì minuziosamente l'accusa e li condusse a processo. Secondo il Mingarelli i sei giovani si sarebbero vendicati di alcuni sgarbi subiti dai carabinieri. L'ipotesi non era solida, ma il processo si aprì ugualmente.
Il movente costruito dall'alto ufficiale non convinse i giudici, che assolsero i sei giovani. Il piano costruito appositamente dal colonnello si ritorse contro di lui. I giovani indagati infatti, una volta liberi, denunciarono Mingarelli per le false accuse, dando inizio ad un nuovo processo. Stavolta il principale indiziato era proprio il colonnello.
Da quest'ulteriore indagine emerse l'evidente colpevolezza di Mingarelli, condannato poi per falso materiale e ideologico e per soppressione di prove (condanna confermata in Cassazione nel 1992[1]) e altresì il reato di favoreggiamento aggravato dell'allora segretario dell'MSI Giorgio Almirante (poi amnistiato). Anche il generale Giovanbattista Palumbo (comandante della divisione Pastrengo di Milano) aveva partecipato al depistaggio per attribuire l'attentato ai gruppi di estrema sinistra.[1]
Frattanto il terrorista triestino Vincenzo Vinciguerra, di fede neofascista, aveva confessato la paternità dell'attentato di Peteano scagionando totalmente Carlo Cicuttini: si rivelò giusta l'indicazione fornita da Giovanni Ventura.
Un altro neofascista, Carlo Cicuttini, venne identificato come l'autore della telefonata-trappola, cosa che non è mai stata dimostrata in quanto la cassetta contenente la registrazione della telefonata sparì dagli archivi. Nel suo capo d'accusa si può leggere: "...escludendo donne e bambini, l'accento del telefonista non può che essere quello del Cicuttini". Per due volte in Spagna i giudici negarono la sua estradizione in Italia e il giudice Felice Casson andò a verificare di persona la falsità delle affermazioni relative ad un'operazione alle corde vocali e ai versamenti di soldi da parte di partiti o privati nei suoi confronti.
Cicuttini, fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell'aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato illegalmente dalla Francia in quanto non è riconosciuta l'estradizione per reati politici.

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