06 febbraio, 2010

PROMEMORIA 6 febbraio 1853 - Scoppia a Milano un'insurrezione anti-austriaca, domata l'indomani


Scoppia a Milano un'insurrezione anti-austriaca, domata l'indomani.
La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853 è un episodio della storia del Risorgimento italiano dove ai motivi patriottici e nazionali si associarono le prime idealità socialiste.
Questo avvenimento all'epoca ebbe vasta risonanza presso l'opinione pubblica moderata borghese che vide in esso la necessità che il processo unitario si compisse quanto prima mettendo ai margini sia il movimento mazziniano sia quei movimenti d'ispirazione socialista che avevano già dato prova di sè nella Rivoluzione del 1848 e che ora sembravano volersi riproporre in Italia ad opera della classe operaia.[1]

Gli antefatti
Il Comitato insurrezionale formato da: Piolti, capo civile; Brizi, capo militare; Fronti, logistica; Vigorelli, cassiere, aveva pensato in un primo momento di approfittare del gran ballo che si sarebbe tenuto a Palazzo Marino il 31 gennaio e a cui avrebbero certamente partecipato tutti gli alti gradi dell'esercito austriaco. Si sarebbe trovato un sistema per avvelenarli tutti e in questo modo la guarnigione austriaca a Milano, rimasta senza guida, si sarebbe potuta sopraffare facilmente. A qualcuno, di più buon senso il piano melodrammatico apparve irrealizzabile e dall'esito incerto, per cui fu abbandonato.
Altri avevano pensato per accendere la miccia della rivoluzione popolare di assassinare tre aristocratici milanesi, scegliendoli tra i personaggi più importanti tra quelli che collaboravano al servizio dell'amministrazione austriaca in modo da suscitare la reazione del governo, che si prevedeva talmente dura da suscitare l'indignazione popolare. Ma anche di questo progetto non se ne fece nulla.
Nel frattempo i fucili promessi che si attendevano da Genova e dalla Svizzera non arrivarono: i mazziniani e i repubblicani fuoriusciti fecero sapere di non condividere le motivazioni politiche della insurrezione che si decise comunque di mettere in atto confidando nella partecipazione degli operai e del proletariato milanese.

La rivoluzione ad ogni costo
Seguendo l'insegnamento di Felice Orsini che sosteneva che «la prima legge della cospirazione, la quale vuole, che dove mancano armi, dove sono proibiti i bastoni, egli è lecito ricorrere ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico» all'incirca un migliaio di uomini, tra artigiani ed operai, armati solo di coltelli e pugnali la domenica del 6 febbraio 1853 [2] , alle ore 16,45 , diedero l'assalto ai posti di guardia e alle caserme austriache sperando anche che i soldati ungheresi inquadrati nell'esercito austriaco si ammutinassero in nome delle loro aspirazioni all'indipendenza nazionale da Vienna e collaborassero con loro.
Ma così non fu ed anzi venne a mancare anche il promesso aiuto di un ingegnere del Municipio che con i suoi operai addetti alla manutenzione delle strade avrebbe dovuto aiutare gli insorti a costruire le barricate e a tagliare i tubi del gas per lasciare al buio la città.
Da Porta Romana a Piazza del Duomo, da Porta Ticinese a Porta Vercellina gli insorti si scontrano con la polizia e i soldati sciamando per le strade della città in mille scontri, sperando dando l'esempio nella collaborazione del popolo ma rendendo così inefficace e debole la loro azione. I mazziniani milanesi ostili all'ideologia socialista degli insorti assistettero inerti al sanguinoso fallimento della rivolta che si concluse il giorno dopo con i sopraggiunti rinforzi austriaci.

L'esito della rivolta
Tra i soldati austriaci 10 furono i morti e 47 i feriti.
Furono arrestati complessivamente 895 insorti, di questi sedici furono giustiziati con l'impiccagione e la fucilazione. Essi erano:
Antonio Cavallotti (anni 31, falegname di pianoforti, celibe);
Cesare Faccioli (anni 42, garzone di caffè, celibe);
Pietro Canevari (anni 23, facchino, celibe);
Luigi Piazza (anni 29, falegname, celibe);
Camillo Piazza (suo fratello, anni 26, stampatore di caratteri, celibe);
Alessandro Silva (anni 32, cappellaio, coniugato);
Bonaventura Broggini (anni 57, garzone di macellaio, celibe).
Luigi Brigatti (anni 26, liquorista); [3]
Alessandro Scannini (anni 56, maestro ginnasiale privato);
Benedetto Biotti (anni 40, garzone falegname);
Giuseppe Monti (anni 36, garzone falegname).
Gaetano o Girolamo Saporiti (anni 26, lavorante in pettini);
Siro Taddei (anni 27, lattaio).
Angelo Galimberti (calzolaio);
Angelo Bissi (facchino);
Pietro Colla (fabbro).

La critica di Marx
Karl Marx, in un articolo sul "New York Daily Tribune" dell'8 marzo 1853, intitolato "I moti di Milano" , in evidente polemica con Teopompo,(l"inviato di Dio"), come ironicamente chiamava Mazzini, rimproverandogli la convinzione delle rivoluzioni spontanee senza un'adeguata organizzazione che aveva reso un inutile sacrificio l'eroismo degli insorti milanesi,così scriveva:
«L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40.000 soldati tra i migliori d’Europa ...Ma come gran finale dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato molto meschino. È da supporre che d’ora in avanti si ponga fine alle revolutions improvisées, come le chiamano i francesi ... In politica avviene come in poesia. Le rivoluzioni non sono mai fatte su ordinazione ...».
Ma le potenze rezionarie europee non illudessero se stesse «Esse sentono che i troni d’Europa vacillano dalle fondamenta alle prime avvisaglie del terremoto rivoluzionario. Circondate dai loro eserciti, dalle loro fortezze, dalle loro prigioni, tremano di fronte a quel che esse chiamano ‘i tentativi sovversivi di pochi miserabili prezzolati’.’La calma è ristabilita’. Lo è, infatti: è la sinistra, terribile calma che subentra tra il primo e il secondo più violento scoppio del temporale.»

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