16 settembre, 2009

PROMEMORIA 16 settembre 1982 - Massacro di Sabra e Shatila


Massacro di Sabra e Shatila.
Sabra e Shatila (talora trascritto come Chatila, in arabo: صبرا وشاتيلا, Ṣabrā e Shātīlā) sono due campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut. Vengono ricordati per il massacro di un numero di arabi palestinesi stimato tra diverse centinaia e 3500[1], perpetrato da milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano, tra il 16 e 18 settembre del 1982. Sono anche ricordati per successivi fatti di sangue avvenuti nel 1985–1987 e noti come guerra dei campi.

La guerra civile libanese
La guerra civile libanese (1975-1990) influì anche sul conflitto palestinese: infatti Israele sostenne militarmente con armi e addestramenti speciali la comunità cristiana dei maroniti e l'Esercito del Sud-Libano (cristiano-maronita) di Sa'd Haddad contro l'OLP e le forze armate siriane.

Le trattative
Alla metà di giugno del 1982 gli israeliani iniziarono l'assedio di Beirut e accerchiarono i 15.000 combattenti dell'OLP e dei suoi alleati libanesi e siriani all'interno della città. All'inizio di luglio, il presidente degli USA Ronald Reagan inviò Philip Habib - fiancheggiato da Morris Draper - con l'incarico di risolvere la crisi. Cominciarono lunghe ed estenuanti trattative rese assai difficili dal fatto che gli Israeliani e gli Statunitensi non vollero discutere direttamente con i Palestinesi, e i Palestinesi asserragliati nella città non vollero abbandonarla perché temevano ritorsioni dei soldati israeliani e dei loro alleati falangisti. Habib ottenne faticosamente dal Primo Ministro israeliano l'assicurazione che i suoi soldati non sarebbero entrati a Beirut Ovest e non avrebbero attaccato i Palestinesi nei campi profughi; ottenne l'assicurazione del futuro presidente libanese, Bashir Gemayel (Giumayyil, figlio di Pierre Gemayel uno dei fondatori delle Falangi), che i falangisti non si sarebbero mossi, e infine ottenne l'assicurazione da parte del ministero della difesa degli USA che ci sarebbe stato un contingente militare USA a garantire gli impegni presi.
L'accordo fu firmato il 19 agosto, ma la situazione stava di nuovo per cambiare: il 23 agosto del 1982 venne eletto Presidente del Libano Bashir Gemayel, che godeva del favore dei maroniti e di Israele.
Il 20 agosto, alla vigilia dell'imbarco dei primi miliziani palestinesi, che cominciano ad evacuare la città, venne pubblicata negli USA la quarta clausola dell'accordo per la partenza dell'OLP, che così recita:
« I Palestinesi non combattenti, rispettosi della legge, che siano rimasti a Beirut, ivi comprese le famiglie di coloro che hanno abbandonato la città, saranno sottoposti alle leggi e alle norme libanesi. Il governo del Libano e gli Stati Uniti forniranno adeguate garanzie di sicurezza ... Gli USA forniranno le loro garanzie in base alle assicurazioni ricevute dai gruppi libanesi con cui sono stati in contatto »
(American Foreign Policy, Current documents, 1982, Dipartimento di Stato, Washington D.C.)
Yasser Arafat preoccupandosi lo stesso per la sorte dei profughi palestinesi insisté sull'invio di una forza multinazionale che garantisse l'ordine. La richiesta ufficiale di intervento di una forza multinazionale di interposizione venne consegnata il 19 agosto 1982 dal ministro degli esteri libanese Fu'ad Butros agli ambasciatori di Stati Uniti, Italia e Francia. Il piano, fatto accettare dal mediatore USA Philip Habib a Libanesi, Palestinesi e Israeliani prevedeva l'intervento di 800 soldati statunitensi, 800 Francesi e 400 Italiani per garantire l'ordine durante il ritiro delle forze dell'OLP da Beirut. Il mandato della forza multinazionale era di un mese, dal 21 agosto al 21 settembre, e avrebbe potuto essere rinnovato su richiesta dei libanesi in caso di necessità. Tutti i combattenti palestinesi sarebbero dovuti partire entro il 4 settembre, e in seguito la forza multinazionale avrebbe collaborato con l'esercito libanese per portare una sicurezza durevole in tutta la zona delle operazioni.
Il 21 agosto arrivò a Beirut il primo contingente internazionale mandato dai Francesi e nel giro dei due giorni successivi anche i soldati italiani e americani presero posizione nella città. A questo punto Arafat acconsentì di abbandonare Beirut insieme ai suoi 15.000 guerriglieri.

La situazione precipita
Il primo giorno di settembre, l'evacuazione dell'OLP dal Libano era terminata. Due giorni dopo, le armate israeliane avanzarono e assediarono i campi-profughi palestinesi, venendo meno al patto siglato con gli eserciti cosiddetti "supervisori", che però non fecero nulla per fermarle.
Caspar Weinberger, segretario alla difesa americana, ordinò ai marines di abbandonare Beirut il 3 settembre. Esattamente lo stesso giorno le milizie cristiano-falangiste, alleate degli Israeliani, presero posizione nel quartiere di Bir Hassan, ai margini dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. La partenza degli Statunitensi comportò automaticamente quella dei Francesi e degli Italiani. Il 10 settembre gli ultimi soldati partirono da Beirut, 11 giorni prima di quanto sarebbe dovuto accadere, lasciando di fatto campo libero a Israele. Il giorno dopo, l'allora Ministro della Difesa Ariel Sharon contestò la presenza di 2000 guerriglieri dell'OLP rimasti in territorio libanese; i Palestinesi negarono il fatto.
Il premier israeliano Menachem Begin convocò il neo-presidente Gemayel a Nahariya per fargli firmare un trattato di pace con Israele, anche se alcune fonti[2] sostengono che Begin chiese a Gemayel di permettere la presenza delle truppe israeliane nel sud Libano, con a capo Sa'd Haddad, ex capo dell'Esercito del Sud-Libano; a Gemayel fu anche chiesto di dare la caccia ai 2000 guerriglieri palestinesi la cui presenza era stata denunciata da Sharon. Gemayel, anche a causa dei crescenti rapporti di alleanza con la Siria, dovette rifiutare di schierarsi dalla parte di una sola fazione, e non firmò il trattato.
Il 14 settembre 1982, Gemayel fu ucciso in un attentato organizzato dai servizi segreti siriani. Il 15 settembre 1982, le truppe israeliane invasero Beirut Ovest. Con quest'azione, Israele ruppe l'accordo con gli USA che prevedeva il divieto di entrare in Beirut Ovest, gli accordi di pace con le forze musulmane intervenute a Beirut e quelli con la Siria. Nei giorni successivi il premier Begin giustificò l'accaduto come una contromisura per "proteggere i rifugiati palestinesi da eventuali ritorsioni da parte dei gruppi cristiani"; tuttavia pochi giorni dopo Sharon affermò al parlamento che "l'attacco aveva lo scopo di distruggere l'infrastruttura stabilita in Libano dai terroristi".

Il massacro
In cerca di vendetta per l'assassinio di Gemayel e sotto lo svogliato controllo delle forze israeliane dislocate a Beirut ovest, le milizie cristiano-falangiste di Elie Hobeika alle 18,00 circa del 16 settembre 1982, entrano nei campi profughi di Sabra e Shatila. Il giorno prima, l'esercito israeliano aveva chiuso ermeticamente i campi profughi e messo posti di osservazione sui tetti degli edifici vicini. Le milizie cristiane lasciarono i campi profughi solo il 18 settembre. Il numero esatto dei morti non è ancora chiaro. Il procuratore capo dell'esercito libanese in un'indagine condotta sul massacro, parlò di 460 morti, la stima dei servizi segreti israeliani parlava invece di circa 700-800 morti. [1].
David Lamb scrive sul quotidiano Los Angeles Times del 23 settembre 1982:
« Alle 16 di venerdì il massacro durava ormai da 19 ore. Gli Israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, non avevano risposto al crepitìo costante degli spari né alla vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai campi. »
Elaine Carey scrive sul quotidiano Daily Mail del 20 settembre 1982:
« Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L'odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l'uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore »
Loren Jankins scrive sul quotidiano Washington Post del 20 settembre 1982:
« La scena nel campo di Shatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l'angolo, in un'altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso gli edifici vuoti - dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 - raccontava la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull'altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche. »
Testimonianza di Ellen Siegel, cittadina americana, infermiera volontaria, ebrea:
« In cima all'edificio soldati israeliani guardavano verso i campi con i binocoli. Miliziani libanesi arrivarono in una jeep e volevano portare via un'assistente sanitaria norvegese. Ci rivolgemmo ad un soldato israeliano che disse ai miliziani di andare via. Infatti partirono. Alle 11.30 circa gli israeliani ci condussero a Beirut Ovest. Sedetti sul sedile anteriore di una jeep della IDF. L'autista mi disse: «Oggi è il mio Natale (intendendo la festività ebraica del Rosh haShana). Vorrei essere a casa con la mia famiglia. Credete che mi piaccia andare porta a porta e vedere donne e bambini?» Gli chiesi quante persone avesse ucciso. Rispose che non era affar mio. Disse anche che l'armata libanese era impotente, erano stati a Beirut per anni e non avevano fatto nulla, che Israele era dovuta arrivare per fare tutto il lavoro. »

Dopo la strage

(EN)
« The General Assembly, (...)
Condemns in the strongest terms the large-scale massacre of Palestinian civilians in the Sabra and Shatila refugee camps;
Resolves that the massacre was an act of genocide. »
(IT)
« L'Assemblea generale, (...)
Condanna nel modo più assoluto il massacro di larga scala di civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila;
Conclude che il massacro è stato un atto di genocidio. »
(United Nations, General Assembly, 16 December 1982)
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato il massacro con la risoluzione 37/123[3] del 16 dicembre 1982.
L'8-2-1983, la Commissione Kahan chiamata a indagare sui fatti dalle autorità israeliane e presieduta da Itzhak Kahan[4] e composta da un altro magistrato, Aharon Barak, e dal generale di divisione della riserva Yona Ephrat, giunge alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano stati Elie Hobeika e Frem, nemico giurato dei palestinesi sin dall’inizio della guerra civile in Libano (1975-1990). La stessa Commissione però ammette indirettamente la responsabilità nel massacro, per non averlo saputo prevenire né stroncare mentre era ancora in corso, dell'allora ministro della Difesa israeliana, Ariel Sharon, sostituito da Moshe Arens. Viene ammessa anche la responsabilità dei comandi militari della forza d'invasione in Libano e, in special modo, del gen. Rafael Eitan, capo di Stato Maggiore, e del gen. Amos Yaron, comandante delle forze israeliane nella regione di Beirut (trasferito all'Ufficio degli effettivi presso lo Stato Maggiore). A tutt'oggi questa è l'unica inchiesta ufficiale aperta sulla strage.
Elie Hobeika, dopo la fine della guerra, nel 1990, è stato nominato ministro senza portafoglio nel governo di Omar Karami. Il 6 giugno 1991, è uno dei 40 deputati di nomina governativa che sono entrati a far parte del Parlamento Libanese.
Nel 1992, Elie Hobeika è stato eletto deputato e lo stesso anno è stato nominato ministro per gli affari sociali nel primo governo del premier Rafiq Hariri. Fu poi rieletto nel 1996, e nominato ministro per le risorse idriche ed elettriche (comparto strategico in quell'area), carica che ha ricoperto sino alla fine del 1999.
Nel giugno del 2001 la Corte di Cassazione belga[5], apre il processo su Sabra e Shatila in base alla legge del 1993, che assegna competenza universale ai tribunali belgi per i crimini di guerra e contro l'umanità. È chiamato a testimoniare sui rapporti che intercorrevano fra i falangisti e gli israeliani Elie Hobeika ritenuto il responsabile materiale dell'eccidio.
Il 24 gennaio 2002 Elie Hobeika muore a Beirut in un attentato. Meno di 36 ore prima di saltare in aria col suo SUV Range Rover blindato, Hobeika avrebbe avuto secondo alcuni un incontro "confidenziale" con due senatori belgi - il verde Josy Dubiè, presidente della Commissione Giustizia del Senato, e il regionalista Vincent Van Quickeborne - e si sarebbe detto pronto a fare "rivelazioni" sui massacri di Sabra e Shatila e sui rapporti che avrebbe avuto durante quei giorni con i generali israeliani che dipendevano dal ministro israeliano della difesa[6] [7].
Israele si oppone al tentativo belga di incriminare Ariel Sharon per il massacro[8], come altri paesi si oppongono all'incriminazione dei loro leader. A causa di queste pressioni internazionali il parlamento belga rivede la legge riducendo di fatto l'universalità della competenza. La Corte di Cassazione del Belgio archivia così le posizioni di Sharon e di altri politici mondiali[9].

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