24 marzo, 2007

L'eccidio delle Fosse Ardeatine è il massacro compiuto a Roma


L'eccidio delle Fosse Ardeatine è il massacro compiuto a Roma dalle truppe di occupazione della Germania nazista il 24 marzo 1944, ai danni di 335 civili italiani, come atto di rappresaglia per un attentato avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione.
Le "Fosse Ardeatine", antiche cave di pozzolana site nei pressi della via Ardeatina, scelte quali luogo dell'esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti e sono oggi visitabili.
L'attentato
Il 23 marzo alle ore 15 circa, ebbe luogo un attentato in Via Rasella, all'altezza del palazzo Tittoni, ad opera di partigiani dei GAP Gruppi d'Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che dipendevano dalla Giunta militare; essa era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale.
Della Giunta militare facevano parte Giorgio Amendola (comunista), Riccardo Bauer (azionista), Sandro Pertini (socialista), Giuseppe Spadaro (DC) e altri ancora. Sembra che l'ordine di effettuare l'attentato sia stato dato solo dal rappresentante del PCI nella Giunta militare, senza interpellare gli altri membri, e ciò dette luogo, quando fu conosciuta la gravità della rappresaglia, a polemiche interne ai membri della Giunta militare nella prima riunione dopo l'attentato, in cui furono presentati due ordini del giorno con valutazioni non uguali, non fu votato nessuno dei due.
L'attentato venne compiuto da 12 partigiani e altri 5 parteciparono alla sua organizzazione. Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 chilogrammi di esplosivo frammisto a spezzoni di ferro. Dopo l'esplosione furono lanciate a mano alcune bombe. L'esplosione uccise 32 uomini dell'11a Compagnia del 3° Battaglione del Polizeiregiment Bozen (appartenente alla Ordnungspolizei una delle branche delle SS), coscritti sudtirolesi arruolati a seguito della creazione della Zona di Operazione delle Prealpi (annessione delle province di Bolzano, Trento e Belluno al III Reich dopo l'armistizio di Cassibile). Un altro soldato morì per le ferite riportate il giorno successivo.
L'esplosione uccise anche due passanti italiani, Antonio Chiaretti ed il tredicenne Pietro Zuccheretti. Non è stato mai chiarito se vi fosse la possibilità di evitare tali vittime, sebbene possa certamente dirsi che avvisare la popolazione civile della preparazione dell'attacco o della sua imminenza avrebbe esposto l'azione ad un rischio non accettabile di fallimento e i suoi esecutori ad un pericolo sostanziale di essere passati sommariamente per le armi non appena individuati. Alcuni altri italiani restarono uccisi nel corso delle ore successive a seguito della furibonda reazione tedesca Emilio Pascucci, Erminio Rossetti, Fiammetta (Annetta) Baglioni, Pasquale di Marco, e forse altri tre. Complessivamente da sei a nove vittime italiane, nella esplosione o nelle ore successive.
La rappresaglia
In un primo momento, il generale Mältzer comandante della piazza di Roma, accorso sul posto, parlò stravolto di una rappresaglia molto grave. Dello stesso parere fu inizialmente Hitler.
Successivamente vari ragionamenti indussero a limitare alquanto la rappresaglia, e l'ordine fu di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf Hitler, nonostante la convenzione dell'AIA del 1907 e la Convenzione di Ginevra del 1929 nel contemplare il concetto di rappresaglia ne limitassero l'uso secondo i criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa subita e della salvaguardia delle popolazioni civili.
Nella scelta delle vittime, furono preferiti criteri di connessione con i partigiani o altri criteri tendenti a escludere persone rastrellate al momento ma le vittime furono poi prelevate dal carcere romano di Regina Coeli, dove erano detenuti - oltre a membri della Resistenza - vari prigionieri comuni e di cultura ebraica.
Sembra che circa 30 appartenessero alle formazioni clandestine di tendenze monarchiche, circa 52 alle formazioni del Partito d'Azione e Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un'organizzazione comunista trockijsta, e circa 75 fossero di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Sembra che circa metà dei giustiziati fossero partigiani detenuti. Di essi cinquanta furono individuati e consegnati ai nazisti dal questore fascista Caruso. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell'ultim'ora.
L'esecuzione
Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all'epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, già responsabile del rastrellamento del Ghetto di Roma nell'ottobre del 1943 e delle torture contro i partigiani detenuti nel carcere di via Tasso.
L'ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all'attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente furono aggiunte 5 persone in più ed i tedeschi, per eliminare scomodi testimoni, uccisero anche loro.
I tedeschi,dopo aver compiuto l'atroce massacro, infierendo con tale rabbia sulle povere vittime, fecero esplodere numerose mine, per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere o meglio rendere più difficoltosa la scoperta di tale eccidio.
I sopravvissuti del Polizeiregiment "Bozen", si rifiutarono di vendicare i propri compagni uccisi[1].
Un falso artatamente costruito per cercare di suscitare ostilità nei confronti della Resistenza e definitivamente dimostrato dagli studi storici, fu quello del manifesto affisso sui muri di Roma (a strage avvenuta) in cui si prometteva di non dar corso alla decimazione in caso di consegna degli autori dell'attentato di via Rasella.
Dopoguerra
Nel dopoguerra, Kappler venne processato e condannato all'ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell'ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile, con l'aiuto della moglie, riuscì ad evadere dall'ospedale militare del Celio pochi anni prima di morire. Anche il principale collaboratore di Kappler, l'ex-capitano delle SS Erich Priebke, dopo una lunga latitanza in Argentina, è stato arrestato e condannato per la strage delle Fosse Ardeatine.
Polemiche
Dopo l'attentato, ed in seguito nel dopoguerra, ci furono polemiche riguardo alla sua opportunità, in considerazione del gran numero complessivo di morti. Le polemiche sorsero all'interno della Giunta militare, ma anche tra i partiti del CLN e tra organizzazioni partigiane. Alcune organizzazioni, ritennero di essere state assai colpite dalla rappresaglia: sembra che tra i 335 giustiziati ci fossero forse 68 membri dell'organizzazione Bandiera Rossa, che per il suo trockijsmo era mal vista dal PCI.
Nel dopoguerra alcuni parenti delle vittime civili, sia morti in via Rasella sia alle Fosse Ardeatine, fecero causa agli attentatori chiedendo loro un risarcimento, ma le loro richieste furono respinte. Tuttavia le loro cause durarono a lungo e l'ultimo ricorso fu respinto nel 2001, cioè 57 anni dopo l'attentato.
La magistratura ordinaria considerò l'attentato di via Rasella «un'azione legittima di guerra», e con sentenza della Corte di Cassazione dell'11 maggio 1957 non accolse le richieste di risarcimento avanzate dai parenti delle vittime italiane nei confronti degli attentatori, già respinte dal Tribunale e dalla Corte d'Appello civili di Roma, e sentenziò definitivamente che ogni attacco contro i tedeschi costituiva un «atto di guerra». In seguito, l'attentato fu sempre rivendicato come azione di guerra da tutte le autorità dello Stato.

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